Nell'adottare il programma dell'indagine conoscitiva sulle biotecnologie, la Commissione Agricoltura si era prefissata i seguenti obiettivi:
a) valutare lo stato della ricerca sui due differenti tipi di clonazione (embrionale e cellulare) delle piante e degli animali transgenici ed in genere degli organismi geneticamente modificati, appurando la diffusione di tali pratiche e le modalità di svolgimento nonché le loro finalità;
b) valutare differenziatamente, anche in un'ottica internazionale, l'applicazione delle biotecnologie agli animali ed alle piante, appurando:
1) lo stato di avanzamento della ricerca;
2) i rapporti tra organismi pubblici e privati del settore;
3) la valutazione delle interazioni con la sicurezza agroalimentare e le biodiversità;
c) valutare la tutela attualmente riconosciuta alle innovazioni biotecnologiche;
d) valutare l'interazione con i sistemi di sviluppo del sistema agroalimentare e la qualità delle produzioni.
L'indagine è stata promossa per assumere elementi conoscitivi di base in merito ad un settore in notevole sviluppo e relativamente poco conosciuto, che presenta notevoli possibilità e, correlati con queste, non pochi rischi, connessi soprattutto con la perdita della biodiversità e con potenziali effetti indesiderati sulla salute umana e sull'ambiente.
In base alla definizione della Federazione europea sulle biotecnologie, la biotecnologia nasce dall'integrazione tra scienze biologiche ed ingegneria allo scopo di utilizzare organismi, cellule, loro componenti ed analoghi molecolari per l'ottenimento di beni e servizi; secondo un'altra definizione, la biotecnologia costituisce l'intervento centrale che sviluppa i metodi per creare nuove forme di vita impossibilitate ad emergere da sole in natura.
Le numerose audizioni, svolte in un arco temporale relativamente breve, hanno consentito, sostanzialmente, di raggiungere gli obiettivi prefissati. È opportuno analizzare punto per punto gli elementi acquisiti.
Riguardo alle clonazioni, le audizioni hanno consentito alla Commissione di acquisire rilevanti informazioni in merito ai casi più recenti in campo animale ed alle possibilità di diffusione di tale tecnica.
La clonazione animale può essere distinta in due forme principali: clonazione tradizionale, la quale consiste nella divisione dell'embrione (splitting) o nel trasferimento di blastomeri (isolamento di cellule dalla morula) e clonazione moderna, da cellule somatiche (con la possibilità di produrre un numero illimitato di replicanti). Il professor Donato Matassino ha esemplificato le potenzialità della clonazione con trasferimento di blastomeri spiegando che tale tecnica consente di riprodurre da 500 a 65.000 individui bovini tutti uguali. La clonazione moderna è stata sperimentata da Wilmut e Campbell per la pecora Dolly: sulla riuscita dell'esperimento, peraltro, sono stati sollevati numerosi dubbi nel mondo scientifico riguardo all'effettivo impiego di una cellula somatica differenziata.
Dalle audizioni è apparso evidente che le tecniche di clonazione pongono questioni cruciali, rischiando di provocare la crisi della definizione classica di materia vivente, la quale poggia su tre caratteristiche fondamentali: riproduzione, sviluppo ed evoluzione, essendo quest'ultima strettamente correlata alla diversità genetica. La riproduzione per clonazione, producendo più individui con uno stesso corredo genetico, riduce quel potenziale di resistenza ed evoluzione connesso alla variabilità genetica. In altri termini, annullandosi o, meglio, riducendosi la diversità, il rischio di riproduzione delle prospettive evolutive, inizialmente non prevedibili (attualmente riguardano un individuo di una specie) si estenderebbe alla nuova popolazione, quale effetto perverso del processo di clonazione. Una popolazione composta da individui con un identico corredo genetico, nei fatti, vedrebbe rallentata l'evoluzione, ponendo problemi di vulnerabilità difficilmente immaginabili. Il compianto professor Gaetano Salvatore ha avvertito che la diminuzione o l'abolizione della biodiversità comporta che in futuro qualsiasi condizione avversa - per esempio, malattie infettive, virali, da fungo - potrebbe condurre all'estinzione di una specie.
L'estrema attualità dell'argomento è data dall'evenienza che fino ad ora le biotecnologie sono state usate soprattutto nel campo dei vegetali, per i quali il mantenimento del nuovo assetto di informazione genetica non è difficile. Per le piante infatti - lo ha spiegato con chiarezza il professor Gianni Tamino, parlamentare europeo - il sistema di trasmissione asessuata (senza riproduzione con gameti) è norma: la riproduzione delle piante può avvenire tranquillamente con la coltivazione in vitro da singola cellula per ottenere tutta la pianta. Oggi, a livello mondiale, è in atto uno spostamento di interesse dalle piante al settore animale, con forti implicazioni sul versante farmacologico e più in generale medico, come nell'ipotesi dei trapianti o in quella di sangue umanizzato. La clonazione animale può aprire la strada alla clonazione umana, perché è una tecnica relativamente facile, realizzabile in moltissimi laboratori.
Utilizzando le nuove tecniche transgeniche è possibile trasformare qualsiasi organismo vivente. Si può prelevare un gene da un organismo ed inserirlo in un altro organismo, sia vegetale, sia animale, sia umano. È possibile anche trasferire geni di batteri in piante, animali e uomini. Come ha confermato il professor Buiatti, è realizzabile qualsiasi tipo di trasversalità. Le potenzialità sono indubbiamente enormi, tenuto conto che i geni conosciuti e utilizzati per dare vita alle piante transgeniche di interesse commerciale sono appena una ventina sui circa centocinquantamila disponibili in una pianta media. Il professor Chris Bowler ha affermato che la biotecnologia è l'unica possibilità per produrre cibo in quantità sufficiente per la popolazione mondiale, in costante aumento. Tale crescita della popolazione rende necessaria, a suo giudizio, la coltivazione di piante in grado di crescere anche in condizioni in cui normalmente non crescerebbero: per esempio, il mais ha una grande sensibilità al freddo e ciò ne limita le zone di coltivazione; la possibilità di aumentare la tolleranza del mais anche ad un solo grado in meno di temperatura equivale a miliardi di dollari. Le compagnie multinazionali stanno lavorando per cercare di generare linee di mais più tolleranti al freddo sia tramite selezioni classiche ed incroci, sia tramite le biotecnologie.
I problemi posti da tali tecniche risultano complessi ed inediti, segnatamente in riferimento alla identità degli organismi geneticamente modificati (OGM) ed ai rischi di immissione in ambienti estranei. Allo stato attuale, si segnalano notevoli incertezze in merito ai rischi possibili nel medio e lungo termine, in particolare per l'impatto sulla biodiversità vegetale ed animale. È comunque impossibile, come ha segnalato il dottor Flaminio Di Girolamo, governare gli eventuali effetti indesiderati conseguenti all'uso: gli organismi viventi geneticamente manipolati, una volta immessi nell'ambiente, si sviluppano da soli e non obbediscono ad altre leggi che non siano quelle autodeterminate dalla natura. Le biotecnologie sono pertanto tecniche ad alto potenziale di alterazione, che permane nell'ambiente, con il rischio di una trasmissione indesiderata di caratteri da un organismo geneticamente manipolato ad uno non manipolato, attraverso virus e batteri che fungono da vettori. Le sperimentazioni effettuate in ambienti confinati non pongono completamente al riparo dai rischi, se soltanto si pensa, a titolo esemplificativo, che il raggio di azione di un'ape è di circa due chilometri, mentre le zone di rispetto raggiungono al massimo i mille metri. D'altra parte, ancora non sono stati effettuati esperimenti in misura sufficiente e la questione ha carattere internazionale: non serve avere legislazioni sicure e controlli sul rilascio di organismi geneticamente modificati a livello nazionale se non ne esistono anche a livello internazionale. Gli OGM, infatti, non conoscono frontiere e quindi il pericolo non è definibile. Gli equilibri agroecologici e le ripercussioni delle trasmissioni tra piante sono posti a rischio dalle biotecnologie, segnatamente a causa della velocità del cambiamento: i tempi biologici sono molto più lunghi di quelli tecnologici e diventa perciò problematico il necessario adattamento. Alcuni studiosi, tra i quali il compianto professor Gaetano Salvatore ed il professor Chris Bowler, hanno invece sostenuto che le biotecnologie volte ad ingegnerizzare piante resistenti agli insetti eliminano potenzialmente l'utilizzo dei pesticidi e quindi l'inquinamento che ne discende, consentendo di migliorare l'ambiente, creando tecnologie compatibili con l'ambiente stesso.
Un ulteriore aspetto del problema deriva dallo sfalsamento che si crea sotto il profilo della distribuzione temporale dei benefici e dei costi: i soggetti transgenici producono infatti benefici immediati e costi posticipati. Inoltre, i primi concernono beni materiali, mentre i secondi riguardano beni non economici, come la riduzione della biodiversità.
Anticipando quanto verrà detto in seguito, va altresì segnalato che mentre i benefici economici vanno a vantaggio del nord del mondo, la riduzione del patrimonio di tipi genetici va a danno del sud del mondo, che costituisce - per così dire - la cassaforte della biodiversità.
Le straordinarie potenzialità delle biotecnologie determinano un oggettivo, rapido invecchiamento delle regole e degli strumenti di controllo esistenti a livello nazionale, europeo e mondiale.
Tra i tanti rischi segnalati dagli esperti, quello sicuramente più rilevante concerne la riduzione della biodiversità vegetale ed animale. Nei diversi interventi sono stati segnalati il genocidio genetico compiuto in questo secolo ed il rischio di una crescita esponenziale dell'erosione genetica conseguente ad una diffusione tecnologica in assenza di regole e di controlli.
In effetti, la salvaguardia della biodiversità dovrebbe costituire, come ha rilevato, tra gli altri, l'ambasciatore d'Italia presso la FAO Luigi Fontana Giusti, l'obiettivo prioritario dell'uomo se si vogliono utilizzare le nuove tecniche biologiche di produzione. Il dottor José Esquinas Alcazar ha efficacemente sintetizzato il legame tra biotecnologie e biodiversità: quest'ultima provvede alla materia prima, mentre la biotecnologia è lo strumento che, applicato alla materia prima, permette di ottenere nuovi prodotti. Per lo sviluppo delle nuove tecniche manipolatorie è dunque fondamentale la conservazione della biodiversità, la quale costituisce patrimonio comune dell'umanità, sottoposto ad un processo di erosione e di dispersione irreversibile: i dati evidenziano la dissipazione di circa il 97 per cento di tale patrimonio (accumulato in più di diecimila anni di lavoro contadino) per effetto dell'industrializzazione, anche alimentare, che ha privilegiato la quantità sulla qualità e la varietà, con un conseguente degrado ambientale. Ogni anno l'uomo distrugge dai 5 ai 7 milioni di ettari di terre coltivate; il processo di desertificazione dei suoli tocca ormai una decina di regioni italiane, quasi il 28 per cento del territorio nazionale.
Per quanto concerne la biodiversità animale, l'odierna situazione si è venuta determinando negli ultimi decenni, durante i quali si è verificato un dimezzamento del numero delle razze di interesse zootecnico. In un periodo non superiore ai quaranta anni sono scomparse duemila razze e risultano attualmente a rischio circa il 20 per cento delle razze ancora esistenti. La situazione europea, in base ai dati forniti dal professor Alessandro Nardone, è quella più precaria: il 70 per cento del complesso delle razze a rischio entro tutte le specie utilizzate è in Europa; sulle 400 ancora esistenti, circa 260 sono a rischio.
Le misure necessarie affinché si possano potenziare le biotecnologie minimizzando i rischi presuppongono allora un codice di condotta sul loro uso, con il quale regolamentare i profili di ordine etico, legislativo ed economico e contemplare gli opportuni accorgimenti per tutelare i diritti degli agricoltori e per la raccolta ed il trasferimento del germoplasma.
Lo stato della ricerca appare suscettibile di sensibili sviluppi, se soltanto si pensa al dato quantitativo inerente all'attuale conoscenza dei geni presenti nell'uomo. Questi sono più di 400.000, partendo dai tre miliardi di base di cui siamo costituiti, secondo calcoli recenti: quelli conosciuti sono circa 15.000 e non tutti hanno una funzione ben chiara e precisa; quelli che hanno una funzione importante dal punto di vista della patologia umana sono ancora nell'ordine di poche migliaia. Già si è segnalato che i geni conosciuti e utilizzati per dare vita alle piante transgeniche di interesse commerciale sono appena una ventina sui circa centocinquantamila disponibili in una pianta media.
Nella Comunità europea, in base alle informazioni fornite dal dottor Norberto Pogna, vengono condotti oltre 972 esperimenti in campo di piante geneticamente modificate; di questi, circa il 15 per cento sono condotti in Italia, la quale, dopo la Francia, è il Paese che ha maggiore esperienza nel settore, pur essendo partito più tardi degli altri. In tutti i Paesi della Comunità europea, salvo il Lussemburgo, si stanno conducendo sperimentazioni; le specie geneticamente modificate ed ormai in campo, cioè vicine ad una fase di commercializzazione, sono oltre 34.
L'Italia ha acquisito esperienza su tre principali colture: il pomodoro, il mais e la cicoria. In totale, le specie geneticamente modificate in prova in Italia sono tredici; i siti di rilascio superano i 300. Negli ultimi cinque anni, a partire dal 1993, in oltre un migliaio di posti in tutte le regioni italiane sono state condotte esperienze nel settore.
Considerando i prodotti transgenici di produzione nazionale, appare evidente il notevole ritardo della ricerca, soprattutto di quella applicata, che richiede un collegamento con l'industria per lo sviluppo dei prodotti. Il settore è prevalentemente in mano alle multinazionali (cfr. il paragrafo seguente); esistono tuttavia interessanti esperienze pubbliche, condotte prevalentemente dagli istituti sperimentali del Ministero per le politiche agricole e da talune società private o parapubbliche italiane, anche in collaborazione tra loro. È ovvio che rispetto alle multinazionali le esperienze pubbliche e private italiane sono minimali, ma risultano di particolare interesse in quanto riguardano specie di particolare importanza per l'economia nazionale.
Vanno segnalate, in particolare, le ricerche condotte in alcuni istituti sperimentali del Ministero per le politiche agricole: l'Istituto sperimentale per la floricoltura di San Remo sta studiando la margherita sudafricana; l'Istituto sperimentale per l'orticoltura, sezione di Montanaso Lombardo, ha prodotto una melanzana geneticamente modificata per la resistenza ad un insetto, la quale, in base agli esperimenti finora effettuati, non ha evidenziato effetti tossici o nocivi sugli organismi viventi; l'Istituto sperimentale per la patologia vegetale ha prodotto piante di pomodoro transgenico resistenti al virus del mosaico del cetriolo; l'Istituto sperimentale per la frutticoltura ha prodotto piante di noce, mandorlo, kiwi e melo, migliorate ai fini della radicazione con l'introduzione del gene rol.
Per quanto riguarda le biotecnologie in campo animale, esse sono attualmente oggetto di studio soltanto presso l'Istituto sperimentale per la zootecnia: il programma più rilevante oggi in corso è finalizzato all'ottenimento di maiali transgenici per lo xenotrapianto.
Tutti gli intervenuti hanno comunque lamentato il fatto che l'Italia destina una percentuale irrisoria del PIL alla ricerca e soltanto esigue risorse allo studio delle biotecnologie. È stata invece rimarcata l'importanza di una ricerca svolta da organismi pubblici e quindi non finalizzata alla produzione, allo scopo di analizzare a più ampio raggio tutte le problematiche connesse con le biotecnologie, dallo studio delle allergie alle forniture di derrate alimentari ai Paesi in via di sviluppo, dalla diminuzione dei costi di produzione alla riduzione dell'impiego di fitofarmaci, fino allo sviluppo di un'agricoltura in grado di recuperare il patrimonio di varietà vegetali oggi a rischio di estinzione. I rappresentanti delle organizzazioni professionali agricole, nel corso della loro audizione, hanno più volte evidenziato la necessità di tenere nel dovuto conto il settore della ricerca biotecnologica nel dare attuazione al decreto legislativo n. 143 del 1997, che ha istituito il Ministero per le politiche agricole, con particolare riguardo agli istituti di ricerca. Il dottor Flaminio Di Girolamo ha suggerito l'istituzione di un'Authority che raccolga le diverse competenze necessarie e sia in grado di formulare valutazioni adeguate anche sull'immissione o meno di organismi modificati nell'ambiente. Per quanto attiene specificatamente alla tutela dei consumatori è stata più volte richiamata l'esperienza della Food and Drug Administration.
I componenti la Commissione hanno evidenziato a più riprese che la ricerca biotecnologica si trova alla confluenza con questioni morali ed etiche di assoluta rilevanza, domandandosi, e domandando agli esperti che hanno partecipato alle audizioni, se sia possibile individuare dei limiti alla ricerca. In particolare, si è sottolineato che con le nuove tecnologie si pone un problema di libertà, particolarmente rilevante quando si tratta degli animali e dell'uomo, nel momento in cui un organismo riceve, senza volerlo, un gene che non ha richiesto. Entra in gioco, inoltre, il rapporto con la natura: ci si è da più parti domandato se l'uomo ha il diritto di creare nuove specie inesistenti in natura. Ha suscitato interesse e preoccupazione la riproposizione in termini scientifici moderni delle figure mitologiche della chimera e del centauro. La chimera è una combinazione di natura somatica tra animali della stessa specie; il centauro è il prodotto di una combinazione tra specie diverse, inclusa quella umana. Ulteriori problemi, in connessione con il tema della brevettabilità, che verrà trattato successivamente, riguardano l'incerto confine tra scoperta ed invenzione.
Sulla possibilità di regolamentare la ricerca sono state espresse diverse riserve. Non è stata però esclusa la possibilità di regolamentare opportunamente i prodotti della ricerca.
Nel corso delle audizioni è stata più volte rimarcata l'assoluta prevalenza della ricerca privata rispetto a quella pubblica, che andrebbe notevolmente sviluppata. Il professor Marcello Buiatti ha riassunto la questione paventando il pericolo di non riuscire a tenere sotto controllo i possibili rischi per la salute umana e per l'ambiente, qualora la ricerca resti in mano alle multinazionali che operano per il profitto. Resta da segnalare un ultimo aspetto: il deficit nella capacità delle istituzioni pubbliche di effettuare ricerche e controlli fa sì che non si sottopongano alle dovute verifiche i dossier presentati dalle multinazionali a corredo delle richieste per la sperimentazione di OGM.
Nel paragrafo precedente già si sono indicati gli obiettivi perseguibili attraverso una ricerca finanziata con stanziamenti pubblici. Si dovrebbe addivenire all'elaborazione di un piano nazionale per le biotecnologie, che individui le priorità rispetto alla situazione ambientale, sociale ed economica del Paese.
L'importanza delle innovazioni biotecnologiche per il comparto alimentare è già stata sottolineata, unitamente ai rischi, legati soprattutto a fattori allergenici e tossicologici, che probabilmente non sono stati studiati ancora a fondo. Compito della ricerca dovrebbe essere proprio quello di evidenziare tali fattori. Le potenzialità di crescita del settore sono enormi, dato che già oggi nel mondo la superficie di coltivazione di piante transgeniche è nell'ordine di 100.000 chilometri quadrati e si valuta che nel 1997 negli Stati Uniti la coltivazione di tali piante riguarderà circa il 5 per cento della produzione. Tali dati implicano che l'Italia, pur vietando nel suo territorio la coltivazione di piante transgeniche, è comunque soggetta all'importazione di materie prime e di prodotti alimentari trasformati contenenti OGM. I casi più eclatanti riguardano la soia ed il mais transgenico. La globalizzazione dei mercati ed il processo di integrazione europea implicano perciò che le scelte vengano compiute a livello internazionale e comunitario: le legislazioni dei singoli Stati non possono assicurare le opportune garanzie di fronte all'importazione di materie contenenti OGM. Tale aspetto è stato sottolineato dai rappresentanti sia del mondo industriale, sia delle associazioni ambientaliste e di tutela dei consumatori. Attualmente, l'ha affermato chiaramente il dottor Massimo Vitale, non è sicuro che negli stoccaggi all'origine, nei trasporti, negli stoccaggi portuali ed all'arrivo negli impianti di trasformazione venga garantita la segregazione fra prodotti geneticamente modificati e prodotti non geneticamente modificati.
In proposito la questione più rilevante concerne il diritto all'informazione di tutti i soggetti coinvolti nella filiera agroalimentare, dai produttori fino al consumatori. È evidente, in particolare, la necessità di segnalare in etichetta la presenza di OGM, per preservare i consumatori da conseguenze allergiche e tutelare le convinzioni filosofiche e religiose di ciascuno, che potrebbero indurre al non utilizzo di prodotti biotecnologici. Per fare ciò, occorrono tecniche e metodi di analisi certi, in grado di individuare la presenza di OGM.
Il Comitato permanente sugli alimenti della Commissione europea ha recentemente deciso, all'unanimità, che dal 1° novembre tutti i prodotti alimentari in vendita nei Paesi dell'Unione europea che contengono OGM dovranno essere etichettati per indicarne la presenza. La disposizione dovrebbe riguardare il 60 per cento dei prodotti alimentari. La percentuale risulta così elevata a causa dell'alto numero di preparati contenenti soia geneticamente manipolata. Affinché le nuove regole entrino in vigore alla data stabilita, il Comitato deve però definire la percentuale minima di OGM oltre la quale far scattare l'obbligo di etichettatura. La decisione del Comitato è evidentemente conseguente alla risoluzione sui nuovi prodotti e i nuovi ingredienti alimentari adottata dal Parlamento europeo il 12 giugno di quest'anno, nella quale si deplorava «che la Commissione non abbia emanato disposizioni di attuazione aventi l'effetto di introdurre nella Comunità un'etichettatura chiara ed univoca dei nuovi prodotti ed ingredienti alimentari» finalizzata a tutelare la salute dei consumatori, che deve «costituire un imperativo categorico». Il Parlamento europeo ha anche invitato «la Commissione a proporre criteri per l'etichettatura positiva di prodotti e di ingredienti alimentari che non contengono, né sono composti da OGM e non sono prodotti ricorrendo all'ingegneria genetica». Le posizioni espresse nella risoluzione rispecchiano quelle espresse dai componenti la Commissione Agricoltura nel corso dell'indagine.
Speculare alla problematica dei diritti dei consumatori è indubbiamente quella attinente alla tutela dei diritti degli agricoltori. In proposito, rilevano sostanzialmente due aspetti.
Il primo aspetto attiene all'evenienza che nel mercato globale gli agricoltori «tradizionali» dovranno sempre più subire la concorrenza di altri produttori agricoli che faranno un uso sempre più massiccio di biotecnologie. Appare condivisibile quanto dichiarato dall'ambasciatore Luigi Fontana Giusti e dal dottor José Esquinas Alcazar in merito all'istituzione di misure di compensazione a favore degli agricoltori che rinunciano a produzioni certamente più redditizie, tutelando così la biodiversità. In particolare, il dottor Esquinas Alcazar ha ricordato che la FAO già nel 1989 e nel 1991 aveva approvato all'unanimità l'istituzione di un Fondo internazionale per le risorse genetiche. Il piano dovrebbe tendere alla conservazione delle risorse genetiche principalmente nei Paesi in via di sviluppo, consentendo l'implementazione dei diritti degli agricoltori attraverso progetti, programmi ed attività diverse. È stato calcolato che un tale fondo avrebbe un costo di circa 300 milioni di dollari all'anno per un periodo di dieci anni.
Altra questione fondamentale per assicurare la biodiversità consiste nel cosiddetto privilegio dell'agricoltore, ossia l'esenzione degli agricoltori dal pagamento di royalties quando seminino nuovamente le loro semenze.
Il secondo aspetto riguarda la notevole dipendenza, in termini giuridico-contrattuali, degli agricoltori rispetto alle poche società multinazionali detentrici del Know how biotecnologico. Si potrebbe eventualmente pensare di prevedere una contrattualistica sul tipo di quella contro le clausole abusive delle condizioni generali di contratto, che salvaguardi la posizione dei produttori agricoli come parte contrattualmente più debole rispetto alle multinazionali, soprattutto con riguardo alle clausole di garanzia circa l'uso del prodotto, gli effetti e naturalmente anche la resa.
Al tema indubbiamente cruciale della brevettabilità delle innovazioni biotecnologiche la Commissione dedicò attenzione già nella scorsa legislatura, quando espresse un parere contrario sul disegno di legge di ratifica degli Accordi GATT di Marrakech, che hanno esteso l'applicazione del brevetto industriale anche alle varietà vegetali ed alle razze animali. Il pericolo di tale estensione è evidente perché, in presenza di pochi limiti, favorisce, principalmente attraverso la protezione dei diritti di proprietà intellettuale, la concentrazione della produzione e del controllo sui geni. In tale modo si è omologata la scoperta all'invenzione, assumendo una linea completamente diversa rispetto a quella seguita dagli stessi Paesi che hanno siglato il Trattato di Marrakech appena due anni prima durante la Conferenza internazionale sull'ambiente e lo sviluppo di Rio de Janeiro.
Viste le prospettive delle innovazioni biotecnologiche, cui si accompagnano inquietanti rischi, assume assoluto rilievo un intervento normativo che segua una logica asimmetrica secondo le prescrizioni articolate dagli studi più attendibili sul rapporto tra scienza e società (Emst Jonas e Luciano Gallino): esso deve infatti fornire incentivi secondo una euristica di breve periodo, incoraggiando soltanto quelle modalità di innovazione nel campo degli OGM i cui sviluppi appaiono accettabili eticamente in un orizzonte prevedibile ex ante e nel contempo istituire misure di sicurezza e di controllo secondo un'euristica di medio e lungo periodo, capace di cogliere i pericoli che si profilano all'orizzonte già ai primi segnali.
Un approccio così articolato è del resto l'unico che appaia conforme agli impegni assunti dall'Italia e dall'Unione europea sottoscrivendo la Convenzione di Rio de Janeiro sulla biodiversità del 1992.
La Commissione esecutiva dell'Unione non ha saputo neppure raccogliere le concrete indicazioni del mondo culturale e scientifico finalizzate ad evitare che potessero essere brevettate tecniche di ingegneria genetica comportanti modificazioni del patrimonio delle generazioni successive (il limite introdotto dal paragrafo 2 dell'articolo 9 della recente direttiva sulla protezione giuridica delle innovazioni biotecnologiche si riferisce infatti, essenzialmente, ai soli trattamenti con fini terapeutici); né ha tenuto adeguato conto di come l'estensione del monopolio brevettuale, pur indubbiamente adatto all'innovazione nel campo della materia inorganica, comporti molteplici inconvenienti se esteso al campo della materia vivente, vegetale ed animale, fino a ricomprendere quella umana. Tra tali inconvenienti meritano di essere segnalati: la creazione di brevetti di sbarramento, che bloccano la ricerca applicata; l'introduzione di squilibri a favore del settore industriale e in danno dell'agricoltura e dei selezionatori di varietà vegetali; l'aggravamento dello scambio ineguale tra il nord ed il sud del mondo.
Prima di descrivere nel dettaglio i rischi sopra segnalati, occorre ricordare una disputa in corso negli Stati Uniti sulla brevettabilità dei geni umani, che ci coinvolge come italiani: si è infatti verificato il caso della scoperta del gene che dà la resistenza alle malattie cardiocircolatorie, che si riscontra nelle popolazioni della zona di Limone del Garda: un individuo di questa popolazione è emigrato negli Stati Uniti ed ha permesso tale scoperta. Il gene, proprio degli individui di quella popolazione, non appartiene più a loro perché è stato brevettato da una multinazionale. Conseguenza paradossale della vicenda è che se queste persone lo volessero, non potrebbero neppure regalare i loro geni, in quanto proprietà di una multinazionale.
Tornando agli inconvenienti prima citati, essi potrebbero essere parzialmente superati adottando i seguenti accorgimenti:
a) la protezione delle innovazioni andrebbe limitata ai soli usi descritti e rivendicati, al fine di evitare il monopolio di sbarramento. Nel corso delle audizioni si è infatti chiarito, al termine di dibattiti appassionati che hanno coinvolto gli esperti ed i deputati componenti la Commissione, che il brevetto dovrebbe riguardare il singolo processo per il quale è utilizzato il gene eventualmente scoperto e non la scoperta del gene e dovrebbe essere temporalmente limitato. Va inoltre richiamata l'importante distinzione, già accennata, tra scoperta ed invenzione: se appare normale la brevettazione di un'invenzione, che introduce nella realtà qualcosa fino ad allora inesistente, non poche perplessità residuano circa la possibilità di brevettare qualcosa già esistente, che viene scoperto per la prima volta. Diverso sarebbe il caso di un gene prodotto in laboratorio e quindi inventato;
b) andrebbe introdotto il diritto degli agricoltori di riseminare anche le sementi bioingegnerizzate (cosiddetta framers' exemption). Occorre in proposito ricordare che gli agricoltori si vedono ormai presentare, dalle multinazionali, pacchetti completi di erbicidi e di semi di piante ad essi resistenti. Si tratta di una questione di indubbio rilievo anche per gli aspetti distorsivi della concorrenza e che dovrebbe maggiormente interessare l'Autorità garante della concorrenza e del mercato;
c) andrebbe infine introdotto un regime di licenza legale dei brevetti biotecnologici a favore dei costitutori di varietà vegetali e dei Paesi del terzo mondo fornitori di germoplasma. Una misura di questo tipo consentirebbe di evitare che lo scambio tra il nord del mondo, detentore delle biotecnologie, ed il sud, detentore delle biodiversità, diventi sempre più ineguale. Essa potrebbe altresì incentivare la conservazione del patrimonio della biodiversità.
In ogni caso, la ricerca biotecnologica va adeguatamente incentivata. In assenza però delle modifiche indicate al capoverso precedente, il quadro per l'innovazione nel campo farmaceutico dovrà essere quello fornito dal sistema brevettuale nella forma accolta dall'articolo 53 della Convenzione sul brevetto europeo e dall'articolo 13 della legge italiana sulle invenzioni e, nel campo agricolo, dal titolo speciale di protezione per le varietà vegetali.
La normativa italiana in materia di innovazione tecnologica nel campo vegetale ed agricolo deve essere tuttavia novellata. Infatti, nel frattempo, in questo specifico settore è stato adottato il regolamento CE n. 2100/94, che istituisce una privativa comunitaria per ritrovati vegetali. In questo caso, lo strumento di tutela dell'innovazione prescelto (il cosiddetto titolo speciale breeders' right) appare conforme alle caratteristiche della materia vivente cui si riferisce la tutela. Appare quindi opportuno allineare in alcuni punti cruciali la tutela italiana (rimasta ferma al decreto del presidente della Repubblica n. 974 del 1975, che a sua volta si ispira alla vecchia convenzione UPOV del 1961) ai principi accolti dal regolamento comunitario (limitata estensione della tutela ai prodotti; regolamentazione del privilegio dell'agricoltore; delimitazione della nozione di varietà essenzialmente derivata).
Tali modifiche dovrebbero essere ispirate all'obiettivo di fornire all'innovazione italiana una protezione non inferiore a quella riconosciuta a livello comunitario e dovrebbero essere formulate in modo da risultare compatibili, nelle loro linee generali, con il quadro tracciato dalla nuova Convenzione UPOV del 1991 in previsione della sua entrata in vigore, anche se, per il carattere marcatamente «protezionista» di quest'ultima normativa (per ora ratificata da soli tre Paesi), appare comunque consigliabile non procedere ancora alla relativa ratifica.
Nella prospettiva indicata, appare anche urgente e di importanza strategica il rafforzamento delle strutture amministrative preposte alla concessione della privativa vegetale.
L'Italia deve porsi all'avanguardia dell'intervento relativo alla normativa in materia di sicurezza. Deve quindi dare attuazione alle direttive sicurezza di seconda e terza generazione (95/30, 94/51 e 94/15), senza perdere l'opportunità di contribuire alla definizione di prospettive temporali adeguate nella verifica degli effetti di lungo periodo, sulla salute umana e sugli eco-sistemi, della introduzione di organismi geneticamente modificati. Si dovranno valorizzare, a tale riguardo, le capacità di previsione e di studio degli enti a ciò tradizionalmente preposti dal Ministero per le politiche agricole e dal Ministero della sanità, creando altresì un'Authority dotata di forte indipendenza; del pari, dovranno venire attivate forme di confronto orizzontali e verticali con le organizzazioni dei consumatori ed ecologistiche e con gli analoghi organismi internazionali (OMS).
Mentre era in corso l'indagine conoscitiva, il Parlamento europeo, nella seduta del 16 luglio, ha approvato con modifiche la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del consiglio concernente la protezione delle invenzioni biotecnologiche. Essa presenta aspetti meritevoli di grande attenzione per le questioni sollevate.
L'aspetto più inquietante concerne senza alcun dubbio la brevettabilità dei geni presenti in natura. L'articolo 8 della proposta di direttiva presentata dalla Commissione così recitava:
«L'oggetto di un'invenzione riguardante un materiale biologico non può essere considerato come una scoperta ovvero privo del carattere della novità soltanto perché tale materiale preesisteva in natura».
Il Parlamento europeo, con la risoluzione legislativa adottata il 16 luglio, ha soppresso tale articolo, introducendo un articolo 8-bis del seguente tenore:
«1. Qualora l'oggetto di un'invenzione consista di materiale biologico di origine vegetale o animale o utilizzi tale materiale, l'invenzione è brevettabile soltanto se il fascicolo brevettuale precisa l'origine geografica del materiale e il richiedente fornisce alle autorità competenti la prova che il materiale stesso è stato utilizzato in conformità delle disposizioni legislative vigenti nel Paese di origine in materia di accesso e di esportazione.
2. Qualora l'oggetto di un'invenzione consista di materiale biologico di origine umana o utilizzi tale materiale, l'invenzione è brevettabile soltanto se la relativa richiesta reca il nome e l'indirizzo della persona da cui il materiale è stato prelevato, del suo rappresentante legale o dei suoi familiari e se il richiedente fornisce alle competenti autorità la prova che il materiale è stato utilizzato e proposto per il brevetto con il libero ed informato consenso della persona in questione, del suo rappresentante legale o dei suoi familiari. Le autorità competenti si astengono dal pubblicare il nome e l'indirizzo di tali persone, dei loro rappresentanti legali e dei loro familiari».
Le due formulazioni differiscono notevolmente, anche come livello di dettaglio, ma entrambe permettono che i geni presenti in natura ed addirittura nell'uomo, frutto di miglioramento genetico storico e dall'uomo stesso conservati, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, possano essere tutti brevettati! Chi scopre la funzione di un gene prevale su chi quel gene lo ha conservato e riprodotto per anni. La correlazione di tale disposto con quello recato dall'articolo 11 (nonostante la deroga prevista dall'articolo 13) può condurre a forme di concentrazione e di dominio per molti versi inedite e pericolose.
Basti pensare, in proposito, che l'85 per cento dei brevetti utilizzati negli Stati Uniti con riferimento a piante transgeniche appartengono ad una sola società multinazionale, che sta attualmente operando per acquisire il residuo 15 per cento: con il che si torna di nuovo alla necessità di promuovere idonee iniziative antitrust.
Si è già fatto riferimento, in più punti, ai rapporti tra le innovazioni biotecnologiche ed il sistema agroalimentare. Resta ora da esaminare il rapporto tra utilizzo dell'ingegneria genetica e tutela delle produzioni di qualità. Per quanto riguarda l'agricoltura italiana, i rappresentanti delle associazioni ambientaliste e delle organizzazioni professionali agricole intervenuti in Commissione hanno sostenuto che, indipendentemente dal rischio ambientale e per la salute, sarebbe un gravissimo errore, sotto il profilo economico, se gli agricoltori italiani volessero imitare il modello statunitense, che è incomparabile a quello del nostro Paese. In particolare, l'Italia ha un patrimonio di biodiversità ed una tradizione di produzioni tipiche e di qualità che devono essere tutelati, anche tenendo conto della domanda sicuramente presente in molti settori della popolazione di prodotti tradizionali, privi di prodotti chimici, con un patrimonio genetico naturale. La ricerca affidata alle istituzioni pubbliche, a supporto di tale agricoltura di qualità e biologica, dovrebbe favorire il mantenimento e la sperimentazione in senso evolutivo delle specie, per così dire, tradizionali e quindi favorire l'utilizzo di varietà vegetali non ingegnerizzate. Azioni di supporto potrebbero venire, più in generale, dalle pubbliche amministrazioni, per esempio nell'attuazione dei regolamenti comunitari 2078 e 2092, finalizzati alla diminuzione dell'impatto ambientale ed alla valorizzazione delle produzioni tipiche, prevedendo in maniera piuttosto rigida che in tale ambito non vengano utilizzati OGM. Inoltre, occorre evitare che in un territorio destinato alle produzioni di qualità vengano inserite piante geneticamente modificate, dal momento che la loro interazione ridurrebbe comunque il valore della specificità. Sotto tale profilo, al di là delle attuali aree protette e dei loro limiti, rispetto alle produzioni ad indicazione geografica protetta e a denominazione di origine protetta andrebbe valutata attentamente la possibilità di porre limiti territoriali, in modo da salvaguardare delle aree.
Dal quadro delineato emerge la complessità della materia, in particolare con riguardo ai seguenti aspetti, che già sono stati trattati ma meritano un ulteriore riferimento:
a) implicazioni morali, etiche ed epistemologiche della biogenetica;
b) rapporti tra innovazioni biotecnologiche e tutela della biodiversità;
c) brevettabilità delle innovazioni biotecnologiche;
d) relazioni tra nord e sud del mondo;
e) nuovi diritti degli agricoltori e dei consumatori.
Lo sviluppo delle innovazioni biotecnologiche sollecita la necessità di un'ampia riflessione sulle loro implicazioni morali, etiche e filosofiche, con riguardo alla brevettabilità della materia vivente e perfino della materia umana, alla individuazione del confine tra scoperta e invenzione, alla possibilità di creare ex novo specie inesistenti in natura, alla messa in discussione della libertà dell'uomo quando si introduce un gene in un soggetto ad esso estraneo che non lo ha richiesto o - nel caso di piante ed animali - non è in condizione di poterlo chiedere.
Le biotecnologie, si è affermato all'inizio, sono strettamente correlate alla biodiversità. Se si è evidenziato, in tutto il presente documento, il rischio che le prime comportino una riduzione della seconda, è invece auspicabile un loro utilizzo finalizzato alla riproduzione della biodiversità che si è andata perdendo negli ultimi cinquanta anni, riproducendo il patrimonio perduto attraverso l'utilizzo di tecniche bioingegneristiche. A tale scopo, si potrebbero eventualmente individuare i casi «eccezionali» autorizzabili di clonazione animale, limitatamente alle attività di ricerca ed alla riproduzione di soggetti appartenenti a razze in via di estinzione, ridotte a popolazioni prive di soggetti fertili.
In merito alla brevettabilità, si sono già rimarcate le perplessità che suscita l'omologazione della materia vivente a quella inanimata. Andrebbero comunque individuati i limiti temporali e di merito atti a tutelare i diritti dei coltivatori, il mantenimento della biodiversità e la libertà di accesso alle risorse genetiche per tutte le strutture di ricerca. Inoltre, il brevetto andrebbe limitato al prodotto ottenuto. Allo scopo, è necessario un impegno del Governo atto a ridiscutere l'articolo 35 del Trattato di Marrakech.
Le relazioni tra il nord e il sud del mondo possono essere rivoluzionate dalla diffusione delle biotecnologie: fin qui si è posto l'accento sul rischio di un deterioramento dello scambio ineguale, a scapito del sud; l'ipotesi di un Fondo internazionale per le risorse genetiche e la possibilità di sviluppare un'agricoltura per le varietà che si sono selezionate nel corso dei millenni attraverso tecnologie che possano renderlo autosufficiente o comunque in grado di produrre di più andrebbero invece a beneficio del sud del mondo.
La questione riguardante i diritti degli agricoltori e dei consumatori è stata già trattata in modo sufficientemente ampio. È importante ribadire che la loro tutela passa attraverso la diffusione del diritto all'informazione (etichettatura dei prodotti, in positivo ed in negativo) e, limitatamente agli agricoltori, attraverso il loro riconoscimento come parte debole nei contratti con le multinazionali e nella valorizzazione del loro ruolo a tutela della biodiversità.
Le iniziative concrete che possono essere assunte dal Parlamento sono condizionate dal rilievo comunitario ed internazionale delle biotecnologie, la cui disciplina non può essere e nei fatti non è affidata agli organi legislativi statuali, per le implicazioni che comporta, soprattutto in un'epoca di globalizzazione dei mercati. Il Parlamento potrebbe comunque procedere:
a) alla discussione della legislazione vigente in materia di protezione brevettuale, sulla base dei punti già indicati al paragrafo G., al fine di proporre conseguenti modifiche a livello nazionale, europeo ed internazionale;
b) alla promozione di dibattiti, in sede sia di Assemblea, sia di Commissione, su atti di indirizzo al Governo (mozioni e risoluzioni), i quali in una prospettiva più generale (mozione) ed in una più specificatamente tarata sul settore agricolo (risoluzione in Commissione) lo impegnino:
1) alla predisposizione di un piano nazionale per le biotecnologie, che individui le priorità perseguibili rispetto alla situazione ambientale, sociale ed economica;
2) al potenziamento delle strutture di ricerca, anche nell'ambito dell'attuazione del decreto legislativo n.143 del 1997, istitutivo del Ministero per le politiche agricole, valorizzando il ruolo della ricerca e della sperimentazione agraria nazionale;
3) a ridiscutere in sede di WTO l'articolo 35 del Trattato di Marrakech, al fine di definire limiti temporali più ristretti per i brevetti, circoscrivendo la relativa protezione esclusivamente al prodotto ottenuto;
4) a promuovere un convegno internazionale finalizzato all'approfondimento dei rapporti tra biotecnologie e biodiversità, riproponendo in tale sede i risultati già acquisiti nella Conferenza internazionale di Rio de Janeiro.
Infine, il Governo ed il Parlamento dovrebbero congiuntamente seguire l'evolversi della situazione, con particolare riguardo alla tutela dei coltivatori e dei consumatori, procedendo alla costituzione di Authority scientifiche pubbliche in grado di esercitare le necessarie funzioni di controllo sull'introduzione e la sperimentazione di innovazioni biotecnologiche.
L'obiettivo comune delle due istituzioni deve consistere nell'evitare che un utilizzo indiscriminato delle biotecnologie produca danni per l'ambiente e la salute umana o riduca il patrimonio di biodiversità, già pesantemente eroso, adoperando le nuove tecnologie con la dovuta cautela ed in un'ottica di lungo periodo, per quanto concerne sperimentazioni e controlli. Le misure e le iniziative indicate nel presente documento potrebbero consentire, se concretamente attuate, di sfruttare il potenziale delle nuove tecnologie, riducendo al minimo i danni per l'uomo, sia sotto il profilo individuale, sia sotto il profilo collettivo, e l'ambiente in cui vive.
Per concludere, si ritiene discutibile e non assunto definitivamente, sia da parte dei componenti la Commissione, sia da parte di tutti gli esperti che hanno partecipato alle audizioni svolte nel corso dell'indagine, il postulato di fondo posto a base della legislazione internazionale sulla brevettabilità della materia vivente, e cioè sull'assimilazione della stessa a cose inanimate. Non è pensabile che l'unico modo per proteggere la proprietà intellettuale nel campo biotecnologico sia quello di annullare la «specificità» della materia vivente per assimilarla a cose inanimate. Basta dare uno sguardo alla stessa epistemologia della genetica, ed in genere delle scienze biologiche, per cogliere tutte le contraddizioni di fondo di tale scelta. Come ha scritto Jean Piaget «posto il fatto che ogni epistemologia già comporta una teoria delle relazioni fra il soggetto conoscente e gli oggetti della conoscenza, l'epistemologia genetica presenta due aspetti ben distinti. Da una parte la biologia è una scienza come un'altra, e l'epistemologia solleva, così, le questioni sulle procedure di conoscenza del soggetto biologico, come nel caso dei soggetti matematici e fisici. Ma, d'altra parte, oggetto della biologia è l'organismo vivente e questo, a differenza di un oggetto fisico qualsiasi, è esso stesso soggetto di conoscenza (non solo l'uomo ma anche gli animali), poiché possiede una sensibilità, una capacità di apprendimento, istinti».
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